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L’eterno problema dei danni cagionati da fauna selvatica: nuovo orientamento della Cassazione

Un nuovo orientamento della Cassazione interviene su un tema complesso, cercando un bilanciamento di interessi tra dottrina e giurisprudenza.
Avv. Filippo Portoghese

Avv. Filippo Portoghese

Avvocato in Milano.

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Il tema del danno cagionato da fauna selvatica potrebbe sembrare secondario nell’affascinante capitolo della responsabilità civile che, come noto, si fonda sul principio sancito dall’art. 2043 c.c. per cui colui che cagiona un danno ingiusto con dolo o colpa ha l’obbligo di risarcirlo. Una responsabilità civile concentrata attorno alla figura del danneggiato posto che il suo fine è riparatorio, di giusta reintegrazione del danno da quello subito. Un risarcimento inteso quale strumento per la ripartizione del costo dei danni e la compensazione della vittima. Con una valenza economica e sociale. Obiettivo che, proprio con riferimento ai danni cagionati da fauna selvatica, non poche volte ha rischiato di restare tale sino alla estrema conseguenza di lasciare il danno laddove esso si è verificato, senza alcuna riparazione o reintegrazione.

Il pregio della sentenza in commento è quello di avere svolto non trascurabili riflessioni intorno a questo rischio peraltro aggravato dalla frequenza e ricorsività di talune situazioni che hanno reso più che discutibile l’individuazione del criterio di imputazione del danno e il soggetto che ne avrebbe dovuto rispondere. Con inevitabili conseguenze per quanto riguarda la certezza del diritto.

L’evoluzione del danno cagionato da fauna selvatica parte da lontano. Almeno da quando, in vigore il codice del 1942, questo tipo di danno non era considerato risarcibile in quanto la fauna selvatica era ritenuta res nullius ex art. 2, comma 1°, del R.D. 5 giugno 1939, n. 1016.  Poi interviene la norma. Prima la L. 27 dicembre 1977, n. 968 e successivamente la L. 11 febbraio 1992, n. 157: la fauna selvatica diventa proprietà dello Stato, amministrata dalle Regioni. 

Non vi è dubbio che l’attività di impresa agricola sia quella maggiormente esposta alle “aggressioni” riconducibili alla presenza sempre più diffusa di animali selvatici. All’attenzione pubblica si impongono però gli incidenti stradali, attirando una maggiore attenzione mediatica. 

Il fatto all’origine della sentenza in commento trae origine proprio dalla collisione tra l’autovettura di un privato cittadino (Tizio) e un cinghiale lungo una strada pubblica in terra abruzzese. Tizio richiede alla Regione i danni riportati al veicolo e la domanda viene accolta dal Giudice di Pace di Pescara e confermata dal Tribunale di L’Aquila. La Regione Abruzzo – forte probabilmente di una giurisprudenza ritenuta favorevole – ricorre in Cassazione raccogliendone un rigetto che compensa tra le parti le spese di lite in considerazione dell’oggettiva incertezza interpretativa sussistente in ordine alle questioni giuridiche esaminate. 

Ed è proprio da questa oggettiva incertezza interpretativa sussistente in ordine alle questioni giuridiche esaminate che prende le mosse l’analisi di questa importante e apparentemente rivoluzionaria sentenza della Corte di Cassazione (n. 7969/2020).

Le questioni giuridiche esaminate riguardano: a. l’applicazione dell’art. 2043 piuttosto che del 2052 del codice civile; b. l’esatta determinazione della figura soggettiva (persona fisica o giuridica) passivamente legittimata rispetto alla richiesta risarcitoria (dovendosi solitamente optare tra la Regione o altri soggetti o enti giuridici non facilmente individuabili); c. le conseguenze in tema di onere probatorio a seconda che si applichi l’una o l’altra disciplina.  

Per quanto riguarda il rilievo sub A) la giurisprudenza (soprattutto di legittimità, meno quella di merito) ha sempre avuto lo sguardo rivolto all’art. 2043 c.c. mentre la dottrina lo ha invece diretto all’art.2052 cc o finanche all’art. 2051 c.c.. Infatti in relazione alla fauna selvatica  e stante lo stato d completa libertà in cui si trova, non sarebbe ipotizzabile una potestà di governo sugli animali. Mentre il privato non può liberarsi dalla presunzione di responsabilità dimostrando la non governabilità di un animale di sua proprietà, nei confronti della Pubblica Amministrazione vige il principio contrario, per cui la selvaggina viene, per definizione, ritenuta non governabile. In altre e più semplici parole il privato sceglie di possedere un animale e deve scegliere un numero proporzionato alle sue possibilità di controllo mentre la Pubblica Amministrazione non compie alcuna valutazione o scelta e dunque non è invocabile contro di essa il noto brocardo cuius commoda eius et incommoda che rappresenta la ratio dell’art. 2052. Interpretazione coerente ma sbilanciata a favore della pubblica amministrazione ritenuta irresponsabile per i danni causati a persone o beni diversi dalle produzioni agricole. Pur riconoscendosi  questa anomalia riesce problematico, sul pianto tecnico-giuridico- giustificare l’applicazione generalizzata dell’art. 2052 ai sinistri provocati da animali selvatici nella consapevolezza che in termini di utilità generale ed efficienza, il regime preferibile, sarebbe proprio quello basato sulla responsabilità oggettiva della P.A. Questo ponendo per intero il rischio sul soggetto che meglio può controllarlo (la pubblica amministrazione) lo incentiva infatti a ridurre detto rischio al minimo. 

Per quanto riguarda il rilievo sub B) la giurisprudenza ha assunto sino ad oggi posizioni diverse. Alcuna giurisprudenza ha individuato nella Regione l’ente pubblico (eventualmente) responsabile per la colposa omessa adozione delle misure necessarie ad impedire il danno anche laddove la Regione avesse delegato i suoi compiti ad altri soggetti. Altra giurisprudenza ha affermato che la responsabilità non è sempre imputabile alla Regione dovendosi imputare all’ente, sia esso Regione, Provincia, Ente Parco, Federazione o Associazione, al quale siano stati concretamente affidati, nel singolo caso (Cass. n. 80/2010; n. 21395 /2014; n. 12727/2016; n. 18952/2017; n. 23151/2019). Altra ancora ha ritenuto doversi indagare, di volta in volta, se l’ente delegato sia stato ragionevolmente posto in condizioni di adempiere ai compiti affidatigli, o sia stato un “nudus minister”, senza alcuna concreta ed effettiva possibilità operativa. In alcuni la responsabilità extracontrattuale è stata imputata alla Provincia a cui apparteneva la strada ove si era verificato il sinistro.

La fantasia del giudicante è comunque stata fervida. Ne è esempio la sentenza di un Giudice di Pace di Pinerolo (2018) che ha accertato la responsabilità della Città Metropolitana di Torino per i danni patiti dall’automobilista all’esito di un sinistro con un capriolo dichiarando altresì la responsabilità solidale della Regione Piemonte per non avere stanziato alcun finanziamento in favore della Città Metropolitana per le delegate funzioni in materia di protezione e gestione della fauna selvatica, e per non avere così posto la Città Metropolitana delegata nelle condizioni di potere concretamente adempiere al compito affidatole.  In altre parole un’accertamento in via solidale della responsabilità.

Per quanto riguarda il rilievo sub C) la scelta dell’individuazione dell’ente legittimato passivo ha spesso assorbito quella del criterio di imputazione e dunque della valutazione della concreta allegazione e prova, da parte dell’attore, della specifica condotta omissiva in rapporto di causalità con l’evento dannoso quasi dando per scontata la sussistenza della responsabilità dell’ente individuato come legittimato passivo e quindi applicando tacitamente o di fatto l’art. 2052 c.c. (benchè in linea di principio lo si affermi come non utilizzabile) piuttosto che dell’art. 2043 cc solo apparentemente enunciato. 

Risulta più che evidente come  la sentenza n. 7969 /2020 della terza sezione civile della Corte di Cassazione si palesi a dir poco rivoluzionaria individuando nell’art. 2052 cc il criterio d imputazione per i danni cagionati da fauna selvatica e nella Regione il legittimato passivo.  Punto e a capo.

Una imputazione che, sin legge nella sentenza, trae origine non dalla “custodia“, ma dalla proprietà dell’animale e/o comunque sulla sua utilizzazione da parte dell’uomo per trarne utilità (anche non patrimoniali). Lo si desume proprio dal tenore letterale della disposizione dove si prevede espressamente che la responsabilità del proprietario o dell’utilizzatore sussiste sia che l’animale fosse “sotto la sua custodia, sia che fosse smarrito o fuggito”. E’ fantasioso ritenere che l’art. 2052 c.c. sia limitato agli animali domestici facendo invece  (solo) riferimento a quelli suscettibili di proprietà o di utilizzazione da parte dell’uomo. Proprietà che, per la fauna selvatica, è configurabile in capo allo Stato ex  L. n. 157 del 1992.

Il soggetto che “se ne serve”, salvo che questi provi il caso fortuito, è la Regione in via esclusiva dal momento che sono le Regioni gli enti territoriali cui spetta, in materia, non solo la funzione normativa ma anche le funzioni amministrative di programmazione, coordinamento, controllo delle attività eventualmente svolte (per delega o in base a poteri di cui sono direttamente titolari) da altri enti, ivi inclusi i poteri sostitutivi, per i casi di eventuali omissioni. Sono dunque in sostanza le Regioni gli enti che “utilizzano” il patrimonio faunistico protetto al fine di perseguire l’utilità collettiva di tutela dell’ambiente e dell’ecosistema.

Laddove il danno si assuma essere stato causato dalla condotta negligente di un diverso ente, cui spettava il compito (trattandosi di funzioni di sua diretta titolarità ovvero delegate) di porre in essere le misure adeguate di protezione nello specifico caso omesse e che avrebbero impedito il danno, la stessa Regione potrà rivalersi nei confronti di detto ente e, naturalmente, potrà anche, laddove lo ritenga opportuno, chiamarlo in causa nello stesso giudizio avanzato nei suoi confronti dal danneggiato onde esercitare la rivalsa (in tal caso l’onere di dimostrare l’assunto della effettiva responsabilità del diverso ente spetterà alla Regione, che non potrà naturalmente avvalersi del criterio di imputazione della responsabilità di cui all’art. 2052 c.c., ma dovrà fornire la specifica prova della condotta colposa dell’ente convenuto in rivalsa, in base ai criteri ordinari). 

Il danneggiato, secondo i canonici criteri, deve allegare e dimostrare che il danno è stato causato da un animale selvatico dimostrando la dinamica del sinistro nonchè il nesso causale tra la condotta dell’animale e l’evento dannoso subito. Non può però ritenersi sufficiente la sola dimostrazione della presenza dell’animale sulla carreggiata e neanche che si sia verificato l’impatto tra l’animale ed il veicolo. Occorre allegare e dimostrare l’esatta dinamica del sinistro dalla quale emerga che egli aveva adottato ogni opportuna cautela nella propria condotta di guida (cautela da valutare con particolare rigore in caso di circolazione in aree in cui fosse segnalata o comunque nota la possibile presenza di animali selvatici) e che la condotta dell’animale selvatico abbia avuto effettivamente ed in concreto un carattere di tale imprevedibilità ed irrazionalità per cui – nonostante ogni cautela – non sarebbe stato comunque possibile evitare l’impatto, di modo che essa possa effettivamente ritenersi causa esclusiva (o quanto meno concorrente) del danno.  In altre parole spetterà in capo al danneggiato l’ulteriore prova, ex art. 2054 c.1 c.c., di avere fatto tutto il possibile per evitare l’animale e ciò per superare la presunzione di concorso di colpa prevista dalla citata normativa codicistica.

Il passaggio che segue è importante perché contiene il germe di una contraddizione che qualche commentatore ha già evidenziato. La Regione, si afferma in sentenza, per liberarsi dalla responsabilità dovrà dimostrare che la condotta dell’animale si sia posta del tutto al di fuori della sua sfera di possibile controllo, come causa autonoma, eccezionale, imprevedibile ed inevitabile del danno, e come tale sia stata dotata di efficacia causale esclusiva nella produzione dell’evento lesivo, cioè che si sia trattato di una condotta che non era ragionevolmente prevedibile e/o che comunque non era evitabile, anche mediante l’adozione delle più adeguate e diligenti misure di gestione e controllo della fauna (e di connessa protezione e tutela dell’incolumità dei privati), concretamente esigibili in relazione alla situazione di fatto. Come detto già qualcuno ha colto in tale motivazione un ritorno alla assenza di colpa poco compatibile però con la responsabilità oggettiva disciplinata dall’art. 2052 c.c..

Invero è stata s ollevata una ulteriore obiezione alle conclusioni salomoniche cui perviene la sentenza de quo. Se il proprietario della fauna selvatica è lo stato, è corretto qualificare le Regioni come soggetti utilizzatori ai sensi dell’art.2052 cc e dunque individuali quali soggetti legittimati ex art. 2052 c.c. al risarcimento dei danni causati dalla fauna selvatica?

Ritenere  calato il sipario su questa querelle che dura ormai da immemore tempo senza attendere un opportuno e auspicabile intervento delle Sezioni Unite è forse eccessivamente ottimistico. Ne va colto però il tentativo coraggioso di volere bilanciare quegli interessi in gioco di cui sono titolari enti pubblici, privati cittadini, imprese (non) agricole e attività agricole. 

Queste ultime godono di speciali tutele indennitarie previste dalla legislazione delle singole Regioni ai sensi della L. 11 febbraio 1992, n. 157, art. 26.  Non sono necessari rigorosi oneri di allegazione e prova normalmente richiesti a chi agisce per ottenere il risarcimento  di un danno ma sono limitate ad una quota di stanziamenti discrezionalmente fissati dall’amministrazione (c’è un fondo regionale alimentato dagli introiti percepiti con le tasse per il rilascio dell’abilitazione all’esercizio della caccia, variabile da regione e regione con la conseguenza che gli indennizzi -su base tabellare- non possono superare gli importi stanziati a bilancio). Qualora l’imprenditore agricolo non dovesse ritenersi compensato dal danno subito, potrebbe adire l’autorità giudiziaria secondo il principio della responsabilità extracontrattuale (utilizzando ciò come criterio di imputazione l’art.2043 cc).

Invero anche relativamente a tale materia si registra una pronuncia innovativa come quella di cui al presente commento. Il Tribunale tarantino con la sentenza n. 840/2020 ha condannato la Regione Puglia e la Provincia di Taranto a risarcire con una somma di circa 40mila euro (più interessi e spese) una  azienda agricola che aveva subito danni a causa di una incursione di cinghiali. A prescindere dai contenuti nel merito quello che si vuole sottolineare è il passaggio da indennizzo a risarcimento. Come  si è cercato di spiegare lindennizzo  non sostituisce il danno ma lo allevia nei limiti delle disponibilità finanziarie di chi lo eroga e dunque questa erogazione può essere molto inferiore al reale danno sofferto (per non parlare del c.d. danno indiretto). Il risarcimento invece mira alla reintegrazione dell’effettivo danno subito.  deve ristorare integralmente il danno subito. Una sentenza quella tarantina che introduce un importante principio giurisprudenziale per cui il danno da fauna selvatica non è riconducibile al rischio di impresa.

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