Silvia Buzzelli e Marco Verdone, “Salvati con nome”

Un interessante viaggio all’interno di un luogo dove, accanto ad esseri viventi reclusi perché hanno commesso un reato, vi sono altri esseri viventi la cui vita è — da sempre — completamente e interamente dominata dall’uomo.

Era da tempo che guardavo con curiosità e interesse “verso” l’isola di Gorgona. Mi chiedevo come vi si arrivasse, se fosse visitabile, come si potesse parlare con i suoi pochi residenti. Magari con qualche agente di polizia penitenziaria. E chissà se mai vi fosse stata la possibilità di ascoltare le storie e le esperienze di coloro che a Gorgona devono scontare la loro pena detentiva. Volevo capire come questa isola fosse diventata un modello di rieducazione “nonviolenta”. E quale fosse stata l’importanza degli animali in questa opera rieducativa. Perché così è stato. Ancora una volta loro, i “detenuti non umani”, hanno aiutato i detenuti umani, incrementando il già immenso credito di gratitudine che i primi vantano -da sempre- verso i secondi.

L’esperienza del carcere di Gorgona, quest’ultima piccola isola dell’arcipelago toscano, è tanto più significativa se consideriamo che gli istituti penitenziari presenti sulle isole sono stati progressivamente chiusi o trasformati per oggettive e intuibili difficoltà “ambientali”, che coinvolgevano sia i “custodi” che i “custoditi”. Forse complice una certa politica che ha ammiccato a talune istituzioni locali preoccupate del fatto di avere un luogo di sofferenza come il carcere in un posto di villeggiatura.

Per imprevisti accadimenti mi è capitato tra le mani proprio un libro che racconta Gorgona. Ne sono curatori Silvia Buzzelli e Marco Verdone. La prima docente di procedura penale e diritto penitenziario presso l’Università Bicocca di Milano, il secondo medico veterinario che ha lavorato sull’isola di Gorgona per (soli) 25 anni. “Salvati con nome” è un libro a più voci. Molte di queste hanno intersecato la propria vita professionale con il carcere di Gorgona e la raccontano facendoci compiere un interessante viaggio all’interno di un luogo dove, accanto ad esseri viventi reclusi perché hanno commesso un reato, vi sono altri esseri viventi la cui vita è — da sempre — completamente e interamente dominata dall’uomo.

Una di queste voci è quella di Marco Verdone, che a questa isola e a ciò che ha rappresentato e rappresenta per il sistema penitenziario ha dedicato 25 lunghi anni lavorando come medico veterinario omeopata presso il locale carcere. Appena sbarcatovi ha fatto su quell’isola ciò che Tom Regan voleva per tutti gli animali: ha reso vuote le gabbie così che gli animali presenti sull’isola potessero circolare liberamente, fino a ridosso del mare.

Lo ha fatto perché profondamente convinto che la più maligna privazione che si possa fare ad un animale sia la limitazione del suo movimento. Privazione che gli animali condividono con i detenuti con la non trascurabile differenza, racconta sempre Verdone, che mentre per gli umani tale privazione è compensata da eccesso di tempo nelle “carceri degli animali” è assente l’idea di futuro poiché l’animale deve produrre molto e in poco tempo.

Sull’isola di Gorgona gli animali sono dunque liberi e Verdone si occupa di loro utilizzando la medicina omeopatica, registrando come il benessere regalato agli animali in libertà venisse da questi trasmesso empiricamente ai detenuti. Questi arrivati a Gorgona con un certo pensiero verso il mondo, scrive sempre Verdone, ne uscivano con uno diverso e migliore.

Nel carcere di Gorgona gli animali diventavano i veri educatori dei detenuti. C’è però una contraddizione molto forte. I detenuti umani scontata la pena avrebbero riacquistato la libertà mentre quelli non umani avrebbero terminano la loro vita all’interno del piccolo macello ospitato sull’isola. Gli animali, curati in vita, morivano da sani.

Il libro “Salvati con nome” ci racconta come coloro che hanno avuto la fortuna di vivere l’esperienza Gorgona abbiano cercato, non senza difficoltà, di risolvere questa contraddizione. Scoprire se e come vi siano riusciti, non è affatto tempo perso.

Fotografie: Rachele Z. Cecchini.

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