Quando il sessismo si traveste da animalismo

di Irene Bianchi

Sono molte le attiviste eco-femministe che si occupano delle interconessioni tra la lotta antispecista e quella antisessista. Tra le più conosciute Carol J. Adams, Pattrice Jones, Greta Gaard e Marti Kheel. Nel libro “The Pornography of Meat” Carol J. Adams, nota femminista antispecista americana, analizza come l’utilizzo del corpo nudo di donne stereotipate rafforzi la costruzione culturale della donna come oggetto. Nella speranza di raggiungere il proprio obiettivo e attirare maggiormente l’attenzione (varrebbe la pena chiedersi di chi), si giustica lo sfruttamento degli stereotipi, rafforzando la costruzione patriarcale dello sguardo maschile sul corpo femminile. Il messaggio subliminale, se non esplicito, sarebbe: «Puoi avere altri oggetti nella tua vita, puoi avere donne oggetto, basta che non siano animali».

Questo, anziché combattere la mentalità di discriminazione che permea la nostra cultura, basata sul dominio e la subordinazione, usa invece a proprio vantaggio la discriminazione sessista a favore degli altri animali. Il sessismo è ovunque, e la mercificazione del corpo femminile viene utilizzata per qualsiasi cosa, anche per veicolare messaggi nobili e importanti come possono essere quelli di liberazione animale. Ma come può un messaggio di sensibilizzazione verso la violenza sul mondo animale accompagnarsi a messaggi misogini e sessisti, promuovendo stereotipi e discriminazioni di genere? Come si può invitare le persone a non trattare gli animali come oggetti da assecondare ai propri bisogni utilizzando l’immagine di una donna-oggetto per veicolare questo messaggio? La contraddizione appare evidente.

Il fatto che essere contro lo specismo significhi essere contrari a qualsiasi forma di discriminazione, sia essa sessista o razzista, pare essere il più delle volte solo uno slogan, un “lavarsi la coscienza”, che una reale e profonda riflessione sul tema e un tentativo concreto di liberarsi di pregiudizi e stereotipi che sono così profondamente radicati in noi e nella nostra cultura che neanche ce ne accorgiamo. Mettere in discussione i propri privilegi è sempre difficile, ma è un percorso personale e collettivo imprescindibile dalla messa in discussione del privilegio su cui si fonda e si giustifica l’oppressione degli animali non umani. Ogni volta che viene usato il corpo di una donna per favorire il consenso verso la liberazione degli animali, inoltre, non solo si trae un vantaggio dal sessismo, ma si dimostra implicitamente l’intransigenza verso le tematiche animaliste e la necessità di ricorrere ad “altro” per poter superare questa barriera.

C’è poi un’altra questione: varrebbe la pena chiedersi se davvero questo strumento di protesta possa considerarsi efficace, se l’effetto ottenuto vada oltre alle risatine dei passanti e possa davvero considerarsi utile alla sensibilizzazione contro lo sfruttamento animale. Quanti badano al reale significato della protesta, all’urlo disperato degli animali, piuttosto che al seno nudo delle attiviste?
Dopo l’ennesimo flash mob condotto allo stesso modo e urlando il medesimo slogan (“meglio nuda che con addosso una pelliccia”), ormai questo messaggio appare depotenziato e non fa più notizia. Resta solo l’insolenza del gesto agli occhi della nostra società e, seppure sia anche questo un male da sconfiggere (in fondo cosa c’è di male nel prendersi la libertà di esibire il proprio corpo?), dobbiamo fare i conti anche con il mondo che ci circonda e ideare strategie consone ad essere intese dagli interlocutori. Ricordiamoci che la nostra protesta non è fine a sé stessa, ma dev’essere sempre finalizzata ad ottenere, nel modo più efficace possibile, un cambiamento di percezione da parte degli osservatori. E se anche così fosse, potrebbe considerarsi accettabile l’utilizzo di un messaggio che contribuisce ad alimentare lo sfruttamento del corpo femminile, se questo servisse per raggiungere il nostro obiettivo, se fosse “per una giusta causa”?

Carol J. Adams ci insegna come sessismo e specismo rappresentino due facce della stessa medaglia, identificabili come diverse forme di oppressione patriarcale: l’uomo (maschio, bianco, eterosessuale) domina e sfrutta la terra, le risorse del pianeta, gli animali e le donne. Accomunati da un destino che li voleva materia inerme, oggetti passivi, natura, donne e animali sono stati per anni, secoli, considerati di proprietà dell’uomo.
Il meccanismo della reificazione permette all’oppressore di vedere e trattare un altro essere alla stregua di un oggetto, sia che si tratti di una donna cui viene negata la libertà di dire no, sia che si tratti della macellazione di animali che vengono trasformati da essere viventi in “cibo”, “pellicce”, ecc.
Il consumo di animali sotto forma di “pezzi di carne”, così come il consumo visivo di “parti del corpo femminile”, rappresentano il compimento dell’oppressione, l’annientamento della volontà, lo smembramento dell’identità. Questo vuol dire che non includere nella critica “antipecista” una critica alla dominazione patriarcale significa quantomeno dare una visione parziale delle motivazioni socioculturali per cui lo specismo esiste nella nostra società, oltre che farci portatori noi stessi dello stesso modello di sfruttamento.

Non si può lottare per i diritti degli animali riproponendo quelle stesse logiche di dominio che opprimono tanto gli animali non-umani quanto le donne.

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